domenica 29 maggio 2016

Di A. e della sua arte addosso. Per sempre



Saranno stati quasi dieci anni fa. E io ricordo ancora perfettamente quando mi sono imbattuta nei tuoi disegni addosso a qualcuno per la prima volta.
Gianni, il mio fidanzato dell'epoca con il quale vivevo un bell'amore profondo e spensierato, sapeva della mia neonata passione per i tatuaggi e - a seguito della mia intenzione di accrescere il numero dei miei ghirigori - mi aveva fatto notare la precisione e la cura con cui erano stati realizzati ricami di ispirazione giapponese sulle braccia del suo amico e collega I. (abbreviazione di un terzo di cognome), che - se la memoria non mi frega - partiva da Magenta per raggiungerti in studio a Monza.

Prima di farti visita e prendere coraggio per telefonarti, mi ero improvvisata investigatore privato e chiedevo a chiunque fosse tatuato se ti conoscesse, e quando avevo la fortuna di imbattermi in qualcuno che ti portava in bella mostra su di sé, mi ritrovavo ad immaginarti attraverso chi ti conosceva già e per te nutriva ammirazione e rispetto.

Ricordo ancora la prima telefonata in studio, prima di prendere appuntamento per venire a mostrarti la foto di un fiore di cactus, e ricordo ancora meglio la soggezione che ho provato di fronte a te e alla tua diffidenza scrupolosa, alla tua parlata scazzata, al fatto che stessi per gettare la spugna prima ancora di venirti a trovare, immagonita dalla tua freddezza al telefono, che proprio non mi aspettavo. Ma io mica lo sapevo che ricevevi ennemila telefonate al giorno, mica mi passava per la mente che oltre a chi si fa tatuare per davvero, c'è una costellazione di indecisi, insicuri, rognosi e fanfaroni che ti assillavano (e forse assillano) prima, dopo e durante il lavoro.

Ricordo i miei occhi sgranati di fronte alle pareti del tuo studio così piene di riconoscimenti e ricordo quanto fossi incredula all'idea di essere proprio lì, davanti a te, timorosa di sembrarti una rincoglionita o anche solo una che non avesse niente da dire, con la mia pelle quasi ancora del tutto candida come mamma Angela l'aveva fatta. Ricordo persino quanto desiderassi starti anche solo un po' simpatica, simpatica a sufficienza per farmi fissare un appuntamento e avere finalmente un tatuaggio che sapevo sarebbe stato unico e meraviglioso, degno di un ricordo così importante.

Erano tempi in cui, per riuscire a farsi ricamare dalle tue mani, bisognava aspettare mesi, se andava di culo erano un paio, erano tempi in cui un tatuaggio per me era un'autentica trasgressione, una rivoluzione, significati ben lontani dal bisogno quasi fisiologico - consolidato anno dopo anno - di fermare un pezzo di storia della mia vita: perché è così che vivo i segni del passaggio degli aghi intrisi di colore che mi faccio infilare sotto pelle.

Ricordo quando mi hai chiesto se fossi sicura della posizione che avevo scelto, perché era molto visibile, perché richiedeva determinazione e sicurezza, e non hai esitato a ricordarmi che mi avrebbe potuto creare problemi sul lavoro. Ricordo il tuo accenno di sorriso quando ti ho spiegato il perché quel fiore, con appoggiata sopra una farfalla, fosse così imprescindibile dall'interno del mio avambraccio: perché era lì che sentivo la pressione del braccio flebile della mia nonna nelle notti che hanno preceduto quella del nostro addio. E ricordo che poi, improvvisamente, hai sorriso, lasciando andare almeno una manciatina di riserve nei miei confronti.

Sono trascorsi quasi dieci anni da quel primo sigillo d'amore, e sopra il letto, in camera mia c'è ancora la foto delle tue mani al lavoro (il primo di ogni singolo altro lavoro che da quel momento in poi soltanto tu hai impresso su di me) e la mia mano che accompagna quella della mia nonnina. Ormai ho perso il conto delle bestioline, delle parole, dei simboli, dei fiori e dei frutti che mi hai regalato nel per sempre della mia stessa vita. Ed è anche per questo che ti ho così a cuore.



Il tempo è trascorso e come direbbe Alda Merini "E fiorita son tutta"  grazie ai tuoi ricami e alle tue incisioni. Di recente siamo persino passate dal "Lei" al "tu", dalle strette di mano agli abbracci lunghi e stretti, abbracci per salutarsi, abbracci per infondere forza, abbracci per consolare, i tuoi, e per ognuno di loro ti sono riconoscente. Quando sono più fragile, quando mi verrebbe da rognare, riascolto la tua voce, e non passa quasi giorno senza che tu non scelga di esserci anche solo un cenno, una parola atta a sussurrare la tua presenza sempre graziosa, sempre riservata, sempre generosa. Le tue parole mi hanno segnata, così come il tuo portarmi a riflessioni disincantate eppure necessarie per ricominciare a vivere e lasciare alle spalle quel recente dolore "pari ad un lutto" che ancora mi fa zoppicare, che ancora mi rende incredula, che ancora devo imparare ad accettare.

E mentre guardo il tuo capolavoro sul mio braccio,  nato nemmeno due giorni fa e mentre lo stesso capolavoro - soltanto un filino più puzzolente - dorme acciambellato ai miei piedi, ho bisogno di congedarmi dal tuo Taboo Tattoo attraverso queste parole, forse confusionarie, ma piene di emozioni che ti appartengono e che vorrei ti raggiungessero.

Mi congedo dal tuo studio, ma da lui soltanto, con la stessa pesantezza di cuore che lascia un libro incredibile che devi necessariamente chiudere perché giunto alla fine delle sue parole. Ma ho una libreria zeppa di nuovi libri che mi aspettano, e uno di questi parla di zampine di micette, un altro di una casa che è fatta di sogni, sacrifici e ostinazione dalle cui finestre si scorgono piante dai frutti antichi, un altro ancora è un giallo in cui viene persino svelato il mistero delle consegne di Amazon a novecento metri di altezza montanara, e poi c'è in una raccolta c'è un racconto che parla di un cagnolino buono e nero che sogna una passeggiata su prati che non ha ancora mai visto, ma che in compagnia della sua Zia, diventerebbero di certo un vero e proprio incanto.

Grazie. 
Per tutto quello che è stato, per tutto quello che oggi è, per tutto quello che aspetto e che non vedo l'ora che ancora sia.




lunedì 23 maggio 2016

Del cagnolino che ama i bimbi

Sarà la pioggia battente ad infierire e ad imbronciarmi perché, in fondo, da quando ho ricevuto la bellissima notizia del breve viaggio a Las Vegas a Giugno, ho deciso di investire le mie energie proficuamente, e quindi, anziché accanirmi a straziare mente e cuore con dispiacere, rammarico e tristezza, ho scelto di anteporre la riconoscenza a qualsiasi forma di ricordo e mancanza.

Mi è stato di grande aiuto confrontarmi con il mio medico personale, con la mia sorellina, che mi ha spiegato la naturalità di alcuni stati d'animo, i quali non devono però permettersi di manipolare la realtà più oggettiva e sadica. E questo confronto, davanti a piattoni pieni di sushi e schifezzine gustose, ha contribuito ad accrescere il desiderio di rivendicare il diritto inviolabile alla mia dignità, così come quello di uscire da questo annientamento.

Non sono una ragazzina con tutto il tempo del mondo a disposizione, non posso struggermi più di quanto non abbia già fatto vivendo determinate circostanze, e adesso è l'ora della presa di coscienza del fatto che ci sia solo una strada da percorrere, e che sia quella dell'amor proprio, dimenticato senza pietà nel corso degli ultimi due anni.

Ho lavorato sia sabato che domenica portando a termine il primo dei corsi iniziati tra febbraio e marzo con i miei allievi. Non nascondo che mi mancherà la testa arguta di E. così come mi mancheranno la sua casa piena di vita, movimento e colori, la sua famiglia sempre accogliente e i suoi cagnolini affettuosi, ma posso ritenermi soddisfatta sia dei risultati conseguiti che dal bel rapporto che siamo riusciti ad instaurare e credo che un bilancio positivo di un percorso non possa che giovare al mio spirito.

Sabato pomeriggio, appena tornata da lezione, ho preso guinzaglio e occhiali da sole e mi sono regalata una lunga passeggiata con Bloodino l'esploratore, e dopo aver scovato una bella pianta di ciliegine selvatiche, un paio di prati nuovi ed essermi goduta le prime vere maniche corte all'aperto, mi sono fermata un po' nel giardino condominiale, dove sono stata raggiunta dalla mia vicina di casa S., dalla sua cagnolona Holly (primo amore di Bloodino) e dai suoi due meravigliosi bimbi.



Che Bloody abbia una predisposizione netta nei confronti di chi è più fragile è visibile agli occhi di tutti, ma che lui sia riuscito a giocare e ad interagire con un esserino di tredici mesi, ha riempito il mio cuore di orgoglio e felicità. E' un cane buono e in lui posso riporre piena fiducia. E - una volta tornata a casa -  ho condiviso queste parole, accompagnandole allo scatto che chiude questa pagina di diario.

"Verso l'ora del tramonto ho visto la proiezione di tutto quello che sognavo, di tutto quello che non avrei mai potuto avere, di quello che ancora desidero diventi realtà, di quello che - in futuro - proverò ancora a costruire. E non mi sono sentita sconfitta. Ho provato conforto e speranza.
Bloodino mio, sei incredibile. E non so come dirti grazie per essere stato così premuroso, delicato e sensibile con quella manina fiduciosa, vecchia solo tredici mesi. Mio piccolo Super Dog, con te TUTTO è magia e stupore."

Non mi vergogno di desiderare che momenti come questo, un giorno, possano magari diventare la normalità così come non mi sento in colpa per aver preteso che la mia vita vedesse la fine di modalità deliranti e crudeli, che io ponessi finalmente fine all'approfittarsene e alla cattiveria. E questa nuova consapevolezza mi permette di sentirmi meglio, almeno un po'. Ho grandi sogni, sogni che nessun altro essere umano ha il diritto di denigrare o sminuire e farmi bastare meno di niente, e poi sempre meno, non è la strada che io mi sarei mai potuta concedere di percorrere.

E con un po' di sana rabbia, col mio bel rossetto rosso, con meno tempo da sprecare a osservare quello che ho alle spalle, mi concedo il lusso di vivere un sognetto ad occhi aperti. Una fantasticheria senza pretese che mi fa sorridere e sperare e mi mostra che cosa abbia veramente senso e valore nella vita: la famiglia. Qualsiasi forma e genere di famiglia, purchè tenuta insieme dal rispetto e dall'Amore reciproco.


giovedì 19 maggio 2016

Della trasferta di lavoro fantasmagorica

Sto traducendo. Un testo impegnativo, uno di quelli che ti fanno diventare pazza. Ma dal letame nascono i soldini, mentre dai diamanti, - quelli che ti lanciano addosso e devi pure restituirli - non nasce un cazzo di niente. Il telefono squilla, mi chiamano dalla redazione, e in cuor mio spero che mi propongano una conferenzina o magari un'altra traduzione.

- Hai la possibilità di andare a Verona?
- Sì, grazie. Di questi tempi io non dico mai di no!
- E poi, ecco... avrei un'altra proposta, ma mi rendo conto del poco preavviso... sarebbe una conferenza di due giorni a... Las Vegas.

Da quel che mi ricordo, perché a seguito dell'accenno a Sin City, non credo che la povera C. abbia potuto dire molto di più, perché giusto il tempo di controllare la data di scadenza del mio passaporto e avevo già detto "Sì, io ci vado!". E l'ho fatto nel modo più pacato e professionale possibile: saltando, imitando Elvis, esplodendo in isteria euforica, balbettando, tremando ed esultando.
E quindi è  tutto vero, finalmente vedrò la City of Lights, la capitale dei condizionatori a cannone, eppure, uno dei luoghi che ho sognato di vivere da sempre.



Io mi impegno e accolgo le sfide, tutte le sfide, persino quelle che sembrano volermi mettere in ginocchio. E poi, all'improvviso, qualcosa di fantasmagorico accade e ti sconvolge. E sono incredibili le sensazioni che mi stanno travolgendo da poche ore a questa parte. Sensazioni insperate a seguito di un ennesimo crollo immotivato, scaturito da niente se non da me stessa, durato giorni e giorni, cui nessuna parola, nessun abbraccio, nessun conforto sapevano porre fine.

Non so se questo viaggio sia un risarcimento, un anticipo su tutto quello che mi deve il mio angelo custode, ma quel cicciottello rincoglionito - che mi ha abbandonata a me stessa e alle mie debolezze - deve essersi messo una mano sulla coscienza, deve essersi rimboccato le maniche e si dev'essere messo al lavoro per me. E di questo sono riconoscente. E sono riconoscente anche al mio San Nicola che ha sempre a cuore gli spiantati.

Sono riconoscente per tutto il lavoro che sembra continuare ad accrescere proprio in un momento in cui avevo il terrore che diminuisse fino a scemare del tutto. Sono riconoscente per la Milvi Army, un esercito di amiche e amici che mi hanno a cuore e che soprattutto lo dimostrano. Sono riconoscente nei confronti di quegli aspetti della mia natura che si ostinano a tener vivi entusiasmo e follia, perché so che rappresenteranno la via di uscita da questo medioevo infernale nel quale mi ritrovo murata viva. Ma io ho un bel martello in mano, e fischiettando "Bella Ciao", io lo voglio demolire anche a costo di sfiancarmi.

E allora torna, voglia di vivere.
Torna anche tu, voglia di essere felice.
Prendete per mano la voglia di ridere e cantare, così come quella di credere che presto tutto il dolore sarà soltanto l'ennesimo insegnamento e non dimenticatevi della voglia di avere speranza, perché lei è zoppetta e rimane sempre indietro, ma si affanna come nessun altro per rimanere nel branco e tenere il passo.

E quindi : Viva Las Vegas!
E viva  - anche un pochino - Milvina Drama Queen, perché ha scelto di splendere e brillare.





venerdì 13 maggio 2016

Dei due mesi

E di tutti gli altri a venire che trascorreranno tenendoci stretti, con Amore.
E saremo insieme tra un'avventura e un sonnellino, tra qualcosa di buono da mangiare e una lunga passeggiata, tra carezze e ore trascorse a giocare, tra canzoncine che non fanno rima e sorprese da sognare.

Se siamo sopravvissuti a tutto quello che è già stato, allora io non ho più paura di niente, perché tu sei il mio coraggio, la mia speranza, il mio sostegno: tu sei la Felicità.

giovedì 12 maggio 2016

Dei colpi bassi, del nuovo logo di Instagram


Ma è possibile che tutto venga stravolto e che tra le mie abitudini più consolidate, nemmeno una rimanga - buona buona - così come sarebbe sensato che rimanesse? Io sono impreparata nei confronti di qualsivoglia cambiamento e ogni alterazione delle consuetudini mi spiazza, infliggendomi un panico bastardo del tutto sconsiderato.
E non è cosa.

Mi tocca fare i conti con un bel periodino molliccio, fumante e marroncino, caratterizzato dall'accettazione a malincuore, dall'annuire mestamente, dal comprendere mentre un occhio mi trema dalla rabbia e una tempia mi sta per esplodere. È il tempo del mandare giù bocconi amari, del farsene una ragione alla meglio, del fingermi buddista, ayurvedica, filosofica e a modino, ma porca bestia, a me scorrono sangue e veleno in corpo e scegliere di reagire senza estremismi o panico diventa difficile. Impossibile.
Non mi riesce proprio.

Non riesco a pensare che A. stia davvero per trasferire il suo studio di tattoo. Mi mancherà profondamente la sua amicizia premurosa, la sua presenza inossidabile,la natura incondizionata del suo conforto, il suo talento che anno dopo anno ho voluto sulla mia pelle. Il nostro è un rapporto che dura da anni, e pensare che dovrà - necessariamente - vedere la fine di un ciclo, una mutazione o un nuovo corso, seppur presumibilmente più intimo e sentito, mi infligge un magone che non so ingoiare. 
E non c'è verso che mi passi.

Non riesco a vedere l'avvicinarsi dell'estate e con esso l'inevitabile gestione della riduzione drastica delle mie ore di docenza - e di conseguenza delle mie entrate - sebbene sembra che almeno le traduzioni non manchino e anche un paio di proposte nelle quali confidare.
Ma chi visse sperando morì come dice il detto, e io ho già dato.

Non riesco a non ripensare, almeno mille volte al giorno, alla rivoluzione che ho imposto alla mia esistenza da due mesi a questa parte e non mi sento ancora sufficientemente forte, sufficientemente pronta, sufficientemente coraggiosa, sufficientemente libera per iniziare a stare in modo più regolare e spensierato in mezzo al mondo, quello al di fuori della mia comfort zone - che poi è la mia stanza di sempre - il luogo che da sacrificio inevitabile scongiurato fino all'ultimo, si sta rivelando una base sicura da dove potrei riprendere fiato e rimettere insieme i pensieri.
Prima o poi.

dramas and cookies twitter

Cosa c'entrano Instagram e il suo nuovo logo?

Ecco, l'aggiornamento di quest'oggi dell'applicazione è l'ennesimo cambiamento che mi tocca subire e contro il quale nulla posso, se non lanciare un paio di sassate via Twitter, dove altri social-addict come me, si sono sbizzarriti a ironizzare contro i nuovi colori degni della peggior Wordart di Windows 97. E su Instagram io ci abito, quindi mi sento come se mi avessero cambiato lo zerbino a mia insaputa, come se mi avessero detto guarda, da oggi il citofono di casa sarà ruvido e glitterato.

Lì condivido cagnolino e carognate, ripicche e sghignazzate, fiori e maledizioni, malinconie e rammarico, colazioni e colori nei quali inciampo, pure a malincuore. Lì ritrovo - nella vita degli altri - i miei sogni irranciditi eppure non ancora da buttare, i desideri scagliati a terra e frantumati come bicchieri e poi amici, conoscenti e sconosciuti di mezzo globo, anzi no: del globo intero. Lì imparo ricette e scopro tendenze, sogno di visitare posti che non sapevo esistessero e scambio istantanee in cambio di compagnia, conforto, partecipazione. Lì mi accorgo della natura selettiva dei miei gusti, della continuità delle mie aspettative e della testardaggine delle mie aspirazioni, e il tutto nonostante un medioevo personale auto-inflitto, auto-prodotto e auto-finanziato.

E quindi no, un Instagram vestito da glamster o gay pride non mi va, un arcobaleno cui mancano il verde e un bel pezzo di blu non lo voglio. E non voglio l'ennesimo cambiamento che non serve ad altro che a disorientarmi. Rivoglio quella macchina fotografica retrò. Voglio il logo cui ero affezionata. Voglio quel che era e che filava liscio come l'olio.
E non dava fastidio a niente e a nessuno.

Perché io di colpi bassi mica posso schivarne ogni singolo giorno.
Perché se un meccanismo funziona non andrebbe stravolto per capriccio.
Perché se ci affeziona a qualcosa sarebbe opportuno che questo qualcosa non venisse snaturato senza remore, senza vergogna, senza possibilità di essere interpellati.
Perché io sto buona e zitta, ma sto facendo una fatica colossale ad andare avanti in questo periodo della mia esistenza che si ostina a usarmi come cavia, che si accanisce quasi fossi fatta di pongo e che allora mi schiaccia, che ce la mette tutta ad inaridirmi.

E, in effetti, un bel po' mi sento rinsecchita. 
Lì, nel cuore. 
Dentro agli occhi. 
Sulle labbra. 
Nelle mani.

martedì 10 maggio 2016

Di Maggembre e delle sue mani zuppe e imbrattate


Analisi logica e dislessia sono una bella sfida e assorbiranno completamente il mio pomeriggio. Fuori il cielo gioca a "piove o non piove" e io farei come Bloody, mi metterei sul letto, mi rannicchierei - magari abbracciandolo o accontentandomi del cuscino - e darei tregua a ricordi e racconti, segreti e confessioni, e poi mi accontenterei di spegnere la testa per qualche ora, sonnecchiando.

Ho deciso di impormi di interrompere quella catena di insulti, denigrazioni, offese e mortificazioni che mi stava annichilendo. Basta cercarne, basta soffrirne, basta recriminarne, basta subirne. Devo semplicemente lasciare che sia, certa del fatto che prima o poi persino lui si stancherà della sua stessa cattiveria.

Ho tolto un bel po' di polvere, ho sputato qualche rospetto, ho gettato dei soprammobili che non sono sopravvissuti alla domanda "lo porteresti con te?" e mi sento un po' più leggera, un po' più pulita, un po' come se il candore delle mensole, dei libri e degli oggetti si rispecchiasse a suo modo anche in me.

Un pranzo pessimo, degno di un voltastomaco da manuale.
Una felpa che non ho il coraggio di togliere, perché mi sento infreddolita come se fosse gennaio.
Un quaderno su cui annoto quei messaggi, quelle parole che mi infondono coraggio e speranza.
Un caffè lungo, del quale ho più bisogno che voglia.
Un paio di appuntamenti da aspettare.
Un paio di canzoni nuove, scoperte per caso, che devo ricordarmi di tenere in macchina.
Una candela accesa che si impegna a pugni tesi, eppure non profuma.

Non è poi così pessimo questo Maggembre, che sgocciola le sue mani zuppe e imbrattate di autunno sulla primavera vestita da prima comunione.

Io, giorno per giorno, divento sempre un po' più forte. E non vedo l'ora di tornare in me, di riavere tutto quello che chi mi vuole bene - poco o tanto che sia, mica importa - continua a vedere, nonostante l'inferno, la distruzione e il dispiacere. Perché forse è meglio essere cattivi che vittime. Forse fa meno male allo stomaco quella formula di amor proprio, rabbia, rancore, disincanto e amicizia.

Bloodino lo sa, si dorme un gran bene sul morbido!



domenica 8 maggio 2016

Delle sassate ben assestate

Rivoglio il meglio di me. Rivoglio l'amor proprio, l'ostinazione e l'intensità. Rivoglio la leggerezza sfacciata ed incosciente, fatta di entusiasmo, colpi di testa, fiducia e fiatone. Rivoglio il mio cuore, quel pezzo di me ancora ostaggio della desolazione, del dispiacere, dell'incredulità. Rivoglio le aspettative, le speranze e le emozioni. Rivoglio le parole che ho sprecato, i gesti che non sono serviti. Rivoglio uno dopo l'altro i giorni buttati al vento, trascorsi a perdonare l'imperdonabile, a tollerare tutto quello che si è rivelato assurdo. Rivoglio l'allegria e le risate con le lacrime. Rivoglio la consapevolezza, il coraggio, la volontà di demolire ciò che è fatto di macerie. Rivoglio la bontà d'animo data in pasto a mostri di cattiveria, rivoglio le premure violate, le carezze tradite.


Se dovessi mai scrivere sotto ad una foto "Semplicemente io", prego chiunque mi conosca, ma anche gli estranei, di prendermi a sassate. Sassate ben assestate, eh.

venerdì 6 maggio 2016

Del protettore delle vittime dei propri errori

Oggi mi son scelta il Santo Protettore, per caso, ma forse non per sbaglio.

"Protettore di disgraziati, e primo disgraziato lui stesso, nonché patrono di marinai, naviganti, bottai, condannati a morte, ragazze da marito, innocenti, vittime di errori giudiziari, prostitute, scolari senza il fiocco e più in generale di tutti gli esseri nati dalla parte di sotto, San Nicola: che dona la capacità di parlarsi."
Vinicio Capossela
E' lui l'unico agiografo al quale mi affido con fiducia, rispetto e devozione.

Trattandosi anche di Babbo Natale, Santo Nicola avrà cura di me: un'agnostica dannata e blasfema, un'anima maledetta, smarrita eppure fiduciosamente rancorosa; una stronza incantevolmente malandata. Una bestemmiatrice a labbra serrate, una che ringrazia di nascosto e prega senza cantilene, ma a pugni stretti. Una regina del dramma della volontà e dell'ostinazione, ma anche del dramma di non essere capace di rassegnarsi e farsene una ragione.
Una da tutto tranne che da marito, stabilità, sogni realizzati e amore.
Una da sospiri, pianti nella doccia, silenzi spessi quanto mollica di pane e ninnoli per scongiurare nuove sventure.





E’ arrivato guaiendo con una stola di cani randagi
ed una scatola di cerini e lumini accesi
Sante Nicola ci ha portato in dono le parole
per parlarci e scaldarci il cuore

che poverta’ non sapersi parlare
e vedersi passare vicini e muti,
chiusi nel rancore

La pioggia si è fatta neve  e non ferisce, ma bagna
e come manna morbida ci consola

Per quanto groppo e freddo ci fosse nel cuore
Sante Nicola ci ha portato in dono
le parole per scaldarci e trovarci ancora


mercoledì 4 maggio 2016

Dei punti fermi, che non si fermano mai dove vorrei che rimanessero per sempre

E' un periodo di sconvolgimenti, di prese di coscienza, di angoscia profonda e di smarrimento. Insomma, non serve un genio per capire che tutto è profondamente nero. Sono nel bel mezzo di una fase da dimenticare e allontanare, una dannata croce da schiodarmi di dosso per ricominciare e poi finalmente guarire.

Ci sono luoghi, ad esempio, che mi portano a subire un'inondazione di emozioni e di ricordi, sono una danza frenetica fatta di deja vu e smarrimento, una roba perversa e malsana  nella quale non capisco perché mi sia così semplice tergiversare. Alcuni posti mi infliggono persino delle vertigini, mancamenti improvvisi che la forza di volontà riesce a malapena ad arginare e ieri non me ne sono negata nemmeno uno, in un fallimento epocale al quale, però, sono  più o meno gloriosamente sopravvissuta.

Sono passata alla Lidl, mi servivano degli snack che a Bloodino piacciono tanto, volevo lo yogurt pesca e maracuja, perché quel vasettone è buono sia da mangiare che da schiaffare in una torta.
Adesso vi racconto come funziona in me. Io sto bene solo all'ingresso del supermercato, quando -ancora forte di una sfacciataggine autenticamente finta e ben protetta dal mio rossetto rosso - mi affaccio agli espositori del pane. Mi sento un leone fino a quando sorrido ai croissant all'albicocca, quelli con lievito madre. Non so perché, ma il loro profumo e il loro aspetto mi confortano affettuosamente. I problemi insorgono e incalzano al passo successivo - passo fisico, un piede davanti all'altro intendo - quando mi faccio coraggio e dopo aver dato una sbirciata ai gusti delle tavolette di cioccolata, mi tocca attraversare tutto il resto del negozio.

Ieri, ad esempio, dopo aver visto gli attrezzi da barbecue mi sono dovuta reggere ad uno scaffale, quello mezzo svuotato della promozione iberica, per non consentire al pianto, all'ennesimo, di esplodere. E mi sono sentita soffocare dall'incalzare di immagini già viste e vissute e definitivamente perse. Piango davanti alla confezione da due pannocchie, piango per il San Daniele e piango davanti alla sfoglia per lasagne, ho pianto pure per l'ammorbidente azzurro, saltando a piè pari quella bastarda schifosa della birra Peroni . Ma com'è possibile che mi sia tramutata nella regina malsana dei ricordi manipolati, resi meravigliosi dall'assenza, composti dal farmi bastare pressoché niente? Pensieri diversamente preziosi, plasmati fino a sembrare accecanti, ma solo perché ho nostalgia di qualcosa che abbia valore, qualcosa capace di sanare il fallimento e di indurmi a credere di aver perso un bel sogno, per torturarmi a modino, anziché un gran bell'inferno.



Intanto Warren Haynes mi canta Simple Man, e allora posso raccontare anche del colpo di grazia che mi è stato inferto ieri, senza pietà, stavolta dall'Effemarket, piccolo supermercato lissonese dove prendevo sempre la carne, dove improvvisavo ricette e menù, dove andavo dopo l'area cani, dove correvo la domenica mattina, dove andavamo in due il sabato, nei giorni felici, quando la sera avremmo grigliato sul balcone, sorridendo al buio del cortile, compiacendoci di una Lotus Grill che era brava quanto un'amica, in un'intimità fatta di una collezione di salse da far invidia ad una steak-house e una complicità di intenti che credevo davvero non si sarebbe mai interrotta.

Ho chiacchierato in macelleria, dove mi è stato chiesto come mai non mi facessi più viva da così tanto tempo e tentennando, deglutendo mocci e voce tremula, ho spiegato che mi ero trasferita, che ora ero fuori mano e che non passavo spesso di lì. Un anziano mi ha guardata parlare, e io so che può sembrare un'iperbole da narratore, una bella parabolina atta a insegnare a me stessa qualcosa e a stupire uno dei miei tre lettori, ma giuro che è andata così, insomma, davanti ai colli di pollo, che il veterinario di Bidibonzi mi aveva suggerito di comprargli, questo anziano mi ha incoraggiata, mi ha ricordato che ero giovane, che tutto sarebbe passato, ma quello che più mi ha toccata è stato rendermi conto che non sia servita alcuna spiegazione,  non si sia reso necessario alcun dettaglio per dimostrare in modo evidente quanto faticassi a dire "Non abito più qui" e ciò mi ha fatta riflettere sulla natura così esplicita, seppure involontaria, di quel che sto passando. Mi si legge addosso, e non c'è maschera che tenga.

E allora, mentre mi sentivo spiegare che la cara e vecchia Sisa era stata rilevata da Carrefour le mie gambe hanno ceduto di nuovo, perché almeno quel supermercato sarebbe potuto rimanere così com'era, senza snaturarsi, senza - forse - perdere per sempre le sue caratteristiche così distintive: il papurott alla befana, la ricetta della torta paesana a novembre, le tipicità stagionali, i suggerimenti per degli acquisti combinati. Io non ero pronta anche a dire addio a quella che era la Mia, la Nostra Sisa. Non ero pronta nemmeno a scattare questa foto ricordo, prima che lo stile francese prendesse il sopravvento su una gestione e un'offerta di prodotti, graziosa come quella di una vecchia drogheria.

E mentre scattavo la foto, mi tremavano le mani, e allora la condivido proprio così, nella sua imperfezione, nella sua genuinità, prendendo atto del fatto che ad uno ad uno ogni singolo punto fermo va in frantumi, ogni stabilità viene sovvertita, ogni sicurezza persa. E io non ne sono pronta. Io non voglio esserlo.



lunedì 2 maggio 2016

Di quel che si muore


A volte mi sento così persa, sconsolata, sconfitta da essere incapace di razionalità, lucidità e concretezza. Arranco, mi costa uno sforzo sovrumano compiere anche i gesti più semplici, più indispensabili, più necessari, quelli della quotidianità, quelli da cui non hai scampo, quelli che devi a chi ami ancor più che a te stessa.

Deglutisco migliaia di emozioni, le mando giù a stento con meno di un goccio di saliva, e sospiro cercando un po' di quiete, un po' di sollievo, anche soltanto un poco di tregua, ma spesso crollo, mi accascio e non so porre fine ai singhiozzi e ad una devastazione che non credo di aver mai provato nella mia intera esistenza.

Ieri ho pianto davanti a mia madre, ero riuscita a tenere botta per un mese e mezzo, ma complice la sacralità di una domenica mattina, complice la vita che ferveva nelle scale e fuori dalla finestra, tutto - all'improvviso - è diventato troppo, insostenibile, incalzante al punto da disorientarmi, da farmi perdere ogni residuo di forza, ogni slancio, ogni anelito di resistenza all'incedere che cerco sempre di schivare.

Mi sono sentita chiedere "Perché piangi? Le tue domeniche, i tuoi giorni erano forse migliori di quelli che hai adesso?" e la risposta taciuta in realtà non poteva essere nient'altro che un "No, non lo erano".

Seguo i consigli di chi mi guarda e non sa più che pesci prendere per infondermi coraggio e speranza. Seguo i suggerimenti di chi mi sprona a reagire, di chi mi incita a rassegnarmi a quel che è stato e di vivere con maggior amor proprio ciò che è adesso, di chi mi scuote e mi ricorda di andare avanti, senza fretta, senza affanno, perché l'esito di questi giorni - che sembrano interminabili e sadici quanto una tortura - dovrà categoricamente volgere al mio bene, al ritrovare me stessa, al ricominciare a godere di ogni giorno di vita, ogni istante di bellezza, ogni occasione di serenità.

E' che mi sento persa.

Mi sento privata di ogni illusione, di ogni convincimento che mi portava a credere che io valessi di più, che meritassi di più, che andandomene avrei dato inizio ad una rivoluzione, che aspettando buona buona, lo stupore mi avrebbe risarcita.

Ma non è così, non sarà mai così. E mi ritrovo ad annuire al tarlo che mi ricorda che solo la disperazione mi induceva a credere alle menzogne che mi raccontavo per sopravvivere. La verità è che io non sopportavo, non sopportavo un cazzo di niente di quello che mi toccava ingoiare, ma avevo così paura della paura, paura dell'angoscia, paura della degenerazione, paura di me stessa da rimanere immobile, a testa china, nell'attesa di qualcosa che solo l'amore vero, la volontà e il rispetto della sacralità di un impegno senza firme, ma stretto col sangue, avrebbero potuto cambiare.

E ho imparato che più amore dai, meno varrà quello che offri a due mani. Ho imparato che a donarsi anima e corpo non resta che niente per noi stessi. Ho imparato che una natura egoista si ingozza fino a schifare tutto quello che hai in te e che incessantemente regali. Ho imparato che poi si incomincia a tenere per sé l'entusiasmo. Poi la pazienza. Poi l'ostinarsi a giustificare. Poi il perdono. E infine anche la tolleranza.

Prima mi sono ripresa il corpo.
Poi mi sono ripresa l'ultimo respiro di una dignità dilaniata.
Poi ho gettato la spugna.

Perché di autolesionismo si muore, così come di sadismo, così come di rassegnazione, così come di dolore. E non ci si può ammazzare per chi non conosce il significato di reciprocità, di rispetto: ideali ben più sacri e inviolabili del maledetto Amore.

E vorrei che la mia rabbia non fosse solo la didascalia che accompagna una foto o un post, ma un sentimento vivo, capace di liberarmi, di aprirmi gli occhi, di risarcirmi, di curare ogni singolo squarcio che nessun rimedio sa ancora cicatrizzare, lenire, attenuare, sanare definitivamente.

E non voglio più tollerare altre pene, perché sono disarmata e non voglio più infliggere coltellate per schivarne. Io non voglio il male di nessuno, io voglio solo il mio bene, perchè ho amato anima e corpo, ma adesso devo mettere in atto quell'unica regola di vita sensata che dice:

"AMA TE STESSA SENZA CEDERE MAI, 
SENZA ESITAZIONE, 
FALLO CON TUTTE LE TUE FORZE.
E POI QUELLO CHE AVANZA, 
SE NE AVANZA, DALLO AGLI ALTRI." 


Erica, Maggio 2016

Del 2 Maggio 2011 (Ce la farai mai, Erica?)

E' infatti vera felicità riconoscersi degni di essere felici


Long Island, 2010


Ho scritto e poi per sbaglio ho toccato due tasti che han cancellato ogni pensiero, ogni immagine a forma di frase e la possibilità di rimediare alla mia consueta sbadataggine. Ho scritto ancora, cambiando le parole, un po' per scaramanzia, un po' perché le parole non si fanno usare due volte; soffrirebbero quanto ne soffre chi abusa di loro e le maltratta, ma mi è andata male nuovamente. E' per questo che ho deciso di ricominciare a farlo per la terza volta, perché significa che oggi è un giorno buono per sforzare l'anima ed i pensieri a non lasciarsi andare alla pigrizia.

Ascoltavamo Tom Petty insieme, la tua macchina era entrata da poco nel reticolo di quelle strade spaventosamente familiari, eppure mai viste prima se non miliardi di volte in televisione, distrattamente, pensando solo a volte, di volerle vedere  "un giorno chissà, un giorno magari". Ascoltavamo anche Neil Young, Bob Dylan e Billy Joel. Tu raccontavi menzogne premurose mentre io facevo in modo di crederci per entrambi, convinta che sarei bastata per non sgretolare quel sogno che mi cucivo addosso ogni mattina e che rammendavo ogni notte, convinta che i miei sentimenti ed i miei propositi sarebbero bastati a far sopravvivere, o forse nascere, un sogno che non era utopia o possibilità, ma semplicemente illusione. Poi non ho più ascoltato molto, perché quando la musica diventa l'unico linguaggio che sei capace di interpretare e gestire, ogni singolo verso è un taglio profondo inflitto dalla distrazione e la distrazione fa male come il sangue che non sei preparato a vedere.

Leggevo allora e leggo ancora però, perché senza musica riesco ad affrontare meglio alcuni aspetti della nuova "me", con i quali mi rapporto in un modo che è in bilico tra l'incredulo ed il paradossale. Attraverso le parole posso liberarmi di alcuni degli spettri che mi si annidano tra gola e petto, imponendomi un soffocamento continuo al quale non mi so rassegnare.

Sono amareggiata.
Lo sono nel profondo, lo sono nelle illusioni che non sbocciano, nei sogni che non prendono forma, nelle aspettative che non fanno che tentennare desiderose che qualcosa migliori. Vivo un'amarezza che solo una terapia, una cura, un medico potrebbero addolcire, ma non è ancora il tempo dei festeggiamenti, non è nemmeno il tempo del sollievo e tanto meno quello della quiete, la quiete dopo l'inferno, perché non sono le tempeste a spaventare qui dentro, tra queste mura di cemento e cuori protetti da strati spessi di disincanto, ma è il male senza nome, quello che toglie il sonno e mangia la vita con mani sporche e bocche ingorde.

Sono stanca, stanca dell'impoverimento della mia testa sempre più pigra, delle pretese della mia interiorità, della profondità delle mie esigenze, della mia impossibilità ad accontentarmi di qualcosa di comodo.

Sono stanca, stanca di chi pensa che sia una stronza cui "ben le sta quel che vive" ( ndE... a buon rendere...), di chi crede che non stia succedendo niente in me solo perché non mi piango addosso e non condivido più la cronaca di dettagli che mi lacererebbero.

Sono stanca di avere a che fare con chi ha la pretesa di spiegarmi chi sto diventando. Sono stanca di chi si illude di conoscermi e di comprendermi, sono stanca di chi pensa che non ci sia più nulla da scoprire. Sono stanca di incassare i colpi con una maestria che avrei preferito non avere. Sono stanca di chi si scarica la coscienza ponendo domande che sono solo squallidi convenevoli. Sono stanca della diplomazia che mi ritrovo sempre tra le mani non appena una maledizione sboccia a fil di labbra.

Sono silenziosa, sono tanto malinconica quanto malconcia, sono delusa. Sono nauseata dalla pochezza e sono infastidita dal grottesco che vedo vivere attorno a me. Sono innervosita da chi si spreca e si accontenta, sono intollerante verso chi confonde i sentimenti con le sensazioni.

Ma sono anche altro.

Sono lucida nelle mie decisioni, sono di conforto e di aiuto quando chi amo ha bisogno di me, sono ironica e sarcastica, sono incallita nella mia voglia di andare avanti. Sono convinta che tutto quel che sta accadendo sia parte di un progetto più grande, un progetto non divino, ma semplicemente formativo, perché non posso che migliorare come essere vivente, come donna, come figlia e come Erica.
Sono anche felice perché non sono più tutto quel che ero e che detestavo essere. Sono felice e mi riconosco degna di ogni più piccola felicità che arriverà e ogni singola felicità che saprò conquistarmi. Avanti così, avanti a porgere il bisturi quando c'è da recidere un canchero tanto del corpo quanto dell'anima.

Ho Pipola, ho l'hennè per fertilizzare il cervello, ho la musica, ho biscotti e non sono sola.
Non mi serve molto altro.

Magari una moto, magari uno zainetto pieno di soldi, magari il biglietto per il viaggio che sogno di fare presto, da sola.

Magari un uomo, ma non un maschio inutile, usato da femmine da poco, un uomo con tanta vita e tante storie da raccontare, un uomo che non abbia paura del proprio passato, un uomo che sappia vivere il presente. Qualcuno per cui valga la pena ricominciare a parlare d'Amore, o forse farlo per la prima vera volta nella vita: quella buona chissà, quella buona magari.



Nota del 2 Maggio 2016.


Io del passato non ho mai parlato solo e soltanto per delicatezza, perché i paragoni feriscono, i confronti mortificano, condividere qualcuno quando non si è pronti per farlo, fa solo e soltanto del male. 
Male superfluo, inutile, cinico, prepotente. 

 E' che trovando TE, non un roadie incontrato per sbaglio, io credevo di avere nella vita, per il resto della vita, un compagno scelto, voluto e desiderato.

Io sentivo di aver trovato me stessa, di aver realizzato il mio Sogno più puro.

Che cogliona, eh?


Erica, 2010