venerdì 16 settembre 2016

Del primo autunno della mia nuova vita



Venerdì e il pomeriggio è appena iniziato.

Questa settimana il lavoro mi ha sommersa - ringraziando il cielo - e mi ha stremata al punto da avermi permesso di dormire quasi per tre notti di fila, notti interrotte soltanto da qualche sogno fastidioso, da qualche ricordo inutile, da qualche posizione infelice.

Il fatto che il lavoro stia avendo la meglio sul mio aspetto, me lo ha mostrato bene il riflesso di me a figura intera davanti alla porta finestra, mentre mi avvicinavo a Bloodino sdraiato sopra al letto. Capelli in disordine, pantaloni della tuta, canottiera di ieri, calzini improponibili, una felpa sgualcita, una molletta che poco ferma e troppo fa sfuggire e l'espressione stanca, sulla soglia dell'estenuazione, ammansita dalle labbra tese a sorridere, perché in fondo non c'è molto che non vada.

Sì, sono proprio stanca, stanca di quella stanchezza sana e buona che impone il mantenimento degli impegni, il rispetto delle scadenze, la precisione delle stesure. Sono stanca, ma accarezzata dalla gratificazione che segue l'apprezzamento per una tua traduzione, per un tuo articolo, per la tua capacità di renderti utile quando ti siedi ad un tavolo in casa d'altri e ti metti ad insegnare.

Non sto più male come un tempo. Lo scrivo a fatica, con paura, perché dichiararlo corrisponde a prenderne atto e, di conseguenza, al crederci. Sento meno peso sulle spalle, meno tristezza nella pancia, meno rancore nel petto. E se così fosse, vorrei che durasse ancora un po'. Perché è bello. Perché mi incoraggia. Perché dà energia agli slanci, alla dedizione e alla continuità.

Devo revisionare un articolo, devo proseguire con una lunga traduzione, devo aspettare che la ciambella che fa profumare la cucina di pasticceria si raffreddi per esaminare il contenuto di almeno una fetta, sorseggiando una tazzona colma di tè.

Fuori sta per piovere.
Bisogna correre fuori.


E mentre Bodibò controlla i valori delle urine su ogni palo, su ogni erbaccia sporgente e su ogni angolo di cancello, io mi metto ad osservare quello che mi circonda:
Una donna si sbraccia verso una macchina che sta per allontanarsi, soltanto per dire  "Ciao" al nipotino una volta ancora. Due ragazze tornano da scuola e sono vestite in modo più appariscente di quando io scaglio via la tuta e provo a mettermi giù da gara. Uno stendino dondola al vento in un cortile e lo strofinaccio rosso dell'anno 2003 sventola più sfacciatamente degli altri, complice la posizione privilegiata dove lo hanno appeso. Il collarino a scacchi del mio piccolo è diventato vecchio e logoro, sbiadito dalle corse al sole, dai bagni nell'acqua del lago e dal sapone di marsiglia con cui lo lavo a mano, ed è giunta l'ora di prenderne uno nuovo nuovo. Le foglie rotolano sull'asfalto della strada spinte forte dal vento, e mentre si allontanano fingono di essere tumbleweed nel deserto. Il cielo grigio e l'aria fredda che mi colpisce in gola mi fa pensare che la mia stagione sia finalmente alle porte.

Il primo autunno della mia nuova vita.
Di nuovo sola. Sola per scelta e per forza di volontà.








domenica 11 settembre 2016

Degli insegnamenti e dell'adeguatezza

Mi sono concessa un lusso.

E prima di scegliere di osare e concedermelo, a brutto muso, mi sono ricordata di mia nonna Isabella, dei lunghi anni trascorsi tra solitudine e infermità, sebbene fosse circondata da un mezzo paesino che aveva la buona abitudine di affacciarsi alla sua porta. E sebbene non le siano mai mancate le cure di mia zia. 
Nonostante faticasse a stare in piedi e camminare fosse un trascinarsi, reggendosi ai mobili e ad appoggi di fortuna, la sua condizione non le impediva, di tanto in tanto, di decidere di regalarsi qualcosa di buono da mangiare. I piatti da convivio, quelli della tradizione destinati alle tavolate rumorose, diventavano una monoporzione casalinga che semplicemente era qualcosa di buono e non c'era alcun motivo per negarselo.
Prendeva un pugnetto di farina, lo impastava con l'acqua che serviva e ne ricavava un panetto piccino, dal quale prendeva dei pizzichi di impasto e li filava con un ferro. Un'esperta di uncinetto sa sempre contare, e lei contava i suoi pochi filatelli, compiaciuta del fatto che sarebbero stati sufficienti per il suo scarso appetito e il sugo borbottante che preparava in un pentolino piccino, buono per un paio di piatti ben conditi.

Oggi ho preso un pugnetto di manitoba anch'io, l'ho miscelato alla semola rimacinata, alla farina di riso, a poche scaglie di lievito e mi sono preparata una pizza. Uno schifo di pizza, per l'esattezza. Uno scempio lievitato alla perfezione, maltrattato da una passata di pomodoro deplorevole, da ciliegine di mozzarella grossolane e gommose e dalla mia fame chimica, privata di ogni poesia già al primo morso.

Ho imparato che devo assecondare i miei bisogni, così come le mie voglie, ho imparato che sebbene la condivisione sia uno degli ingredienti fondamentali per la riuscita di un desinaretto alla Petronilla, così come accade per molte delle piacevolezze della vita, anche la solitudine meriti attenzione e premure, forse persino maggiori. E io ho energie per me stessa soltanto. Cagnolino escluso, perché è a Bodibò che devo ogni slancio e anelito di felicità.

Non scrivo di me con la stessa frequenza con cui la disperazione mi chiedeva che la esprimessi e la liberassi dal petto tempo fa. Il meccanismo è semplice: meno mi dispero, meno ci penso.

È che da un mese a questa parte mi piace dar voce a quello che osservo nelle avventure che vive il mio piccolo migliore Amico. Mi rasserena raccontare storie semplici, senza pretese, fatte di ingenuità e parole inventate. Ecco, quando scrivo di lui, è come se a digitare fossero le sue zampette e questa modalità di sfogo mi conforta. Scrivo frequentemente e lo faccio rivolgendomi ad un gruppo ristretto di occhi, i quali mi dedicano sguardi benevoli e parole sempre incoraggianti.

Ma trascurare queste pagine - fatte di luce, vita che fu e caratteri scuri - mi rattrista, mi immagonisce e acuisce il senso di colpa così già ben pasciuto da parte delle mie insicurezze.

È che questa sera avevo bisogno di fermare un paio di insegnamenti, affinché non venissero dimenticati, affinché non si perdessero tra gli affanni e le ossessioni, perché ho iniziato la mia opera di ricostruzione e non voglio tradire l'impegno d'Amore che ho preso con me stessa.

Dare il giusto peso ai ricordi, distinguendo nitidamente ciò che viene impreziosito dalla mancanza da ciò che realmente è stato. 

Comprendere quando e come si sia venuta a creare quella frattura nella mia emotività che mi impedisce di compiere quei gesti indispensabili e necessari per liberarmi del passato, dei fantasmi e della paura.

Mi sono scattata una foto prima di rimuovere il trucco, prima di controllare allo specchio quante lacrime avessero passato l'esame del mio makeup resistente all'acqua, prima di cedere e svelare così, alle luci dello specchio del bagno, il mio pianto durato ore, un pianto che trattenevo da troppi mesi, complice un'ostinazione volta a ricominciare che non ha precedenti in tutta la mia esistenza.

E non si vedeva nulla.
Perché è solo una questione di inquadrature adeguate, distanze adeguate, intenzioni adeguate.

Non ho progetti, se non un paio di tappe immense dal cui raggiungimento sono ancora ben lontana.

Ho firmato un nuovo contratto e scriverò ancora di piu. Fortunatamente. Mi verranno inviate delle traduzioni e riprenderò con le lezioni. Non è ancora abbastanza per garantirmi indipendenza spensierata e frivolezza, ma questo inizio di settembre ha saputo infondermi speranza e coraggio.

Adesso vorrei imparare a vedermi sempre sfacciata e sicura, e non più definita e descritta dalla mortificazione.

Coraggio.
E faccia tosta.
E qualcuno cui affidarmi.
E qualcosa in cui perdermi.
E qualcosa in cui credere.
Adesso non chiedo altro.



giovedì 1 settembre 2016

Del Fertility day

Dormire? Giammai.

Grazie anche alla Ministra della Supercazzola che mi ricorda quanto sia trullallà essere madre. Quanto sia fuck yeah la famiglia. E quanto siano in decomposizione i miei ovetti, buoni nemmanco per uno zabaione. Mancavano nuovi stimoli alla mia insonnia che oggi ha aperto le danze attorno alle 4.

Io avrei promosso invece un bel Disserbante Day, una giornata di formazione dedicata alla diffusione delle proprietà organolettiche del Napalm e della Diossina, al fine di rimuovere minuziosamente dalla madre patria una mezza generazione, composta da ominidi cazzoni, parecchio cazzari e ben poco cazzuti che corrono il rischio di moltiplicarsi.

A tal proposito conduco da anni delle ricerche sui figli di buona donna - coltivati durante le annate che vanno dal 70 al 78 - e i dati raccolti finora, contribuiscono alla creazione di una copiosa casistica di riferimento, atta a ricordare a me stessa di rendere grazie alla Maronn per non essermi ancora fatta impagnottire.

Alcuni di essi, più che figliare, dovrebbero continuare a mantenersi sotto spirito. E semmai - di grazia - annegarci pure in contanta ebbrezza.

Ordunque, invece che colpevolizzare le donne e assestare coltellate nazional-impopolari, investite in progetti sociali un po' più decorosi, meno mortificanti, meno discriminanti per chi non può, chi non riesce o chi - come chi scrive - sceglie di prendere la pillola, infilarsi un paio di anelli di Cassina e ChechiJuriJuriChechi, vestirsi come Gegia e limonare solo dopo una sorsata di Listerene: per prevenire, che non si sa mai.

Ah. Per la cronaca. 

Ho appena rifilato un pacchero oldschool - la schiaffa, precisamente - ad un insetto col guscio per salvare me stessa e il mio cane dall'ennesimo rumore molesto.
Che soddisfazione essere il Chuck Norris di casa. Con meno barba. Più o meno.